TITOLO: La Neve scende ad Auschwitz
AUTORE: Laura Ferrari
GENERE: fiaba
Note: tratto da Il Cappello magico di zia Joy
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Tanti bambini in quella notte gelida salivano sul treno in direzione di Auschwitz.
Dopo ore di viaggio, sentirono una voce maschile che urlando, ordinava a tutti di scendere velocemente da quel mezzo che aveva trasportato, ammassate, famiglie di ebrei provenienti da varie parti della Polonia.
Ares aveva solo dodici anni e non sapeva dove fosse stato trascinato; piangeva perché la sua mamma e il suo papà erano stati portati lontano da lui, appena erano scesi da quel treno.
Attraverso i suoi occhi gonfi e arrossati dal pianto, riusciva ad intravedere nebbia e gelo; inoltre vedeva tantissime persone scheletriche che camminavano a fatica, vestite solo con una divisa a righe sulla quale era cucita una stella a sei punte gialla.Nella baracca di legno, dove fu portato, c’erano tanti altri bambini.
Le cuccette erano disposte una sopra l’altra e l’odore era acre in quella camerata.
“Io mi chiamo Lehi” gli disse un bambino di circa la sua età, con il viso incavato e pallido dalla magrezza.
“Io mi chiamo Ares” gli rispose singhiozzando. “Dove ci troviamo? Come mai noi bambini siamo in questo luogo orribile?” proseguì.
“Siamo ebrei. Ci hanno rinchiusi qui perché vogliono ucciderci tutti. Dicono che siamo diversi, che siamo inutili” gli rispose Lehi, ormai consapevole della sorte che li attendeva.
Il viso di Ares si fece sempre più preoccupato ed inorridito, ripensando alle parole appena sentite.
Tutte le sere stava sveglio per escogitare un piano per poter ritrovare la sua famiglia.
Poi, però, si addormentava profondamente, stremato dagli sforzi che in quelle giornate centinaia di bambini come lui dovevano affrontare.
Il tempo trascorreva tra le grida e i lamenti assordanti che provenivano dalle varie parti del campo, seguite poi da spari.
Ares non voleva immaginare cosa stesse succedendo, si tappava le orecchie per non sentire.
Pregava e piangeva perché era convinto che qualcosa sarebbe cambiato.
I tedeschi all’ora di cena, insieme ai loro cani ringhianti, entravano nelle camerate per portare loro del cibo, insufficiente; zuppa tiepida, pane vecchio e qualche pezzo di patata, era quello che mangiavano giorno dopo giorno.
Il freddo e l’umidità faceva tossire per molte notti il piccolo Lehi, che diventava ogni giorno sempre più debole.
Nella camerata alcuni suoi amici si adoperavano a turno per tenerlo al caldo, restandogli vicino con il calore del loro corpo dato che non avevano nemmeno una coperta a disposizione.
Durante una di queste notti, dal fondo dello stanzone, si sentì un melodioso suono di armonica. Tutti i bambini si voltarono incuriositi e videro seduto in un angolo del letto, un ragazzino che soffiava piano quello strumento, per paura che qualcuno là fuori lo potesse sentire.
“Sei bravissimo” gli dissero alcuni di loro alzandosi dalle loro cuccette ed avvicinandosi a lui per ascoltarlo meglio.
“Dove hai imparato a suonare così bene?” gli chiese Ares ancora emozionato.
“È stato mio nonno a insegnarmi a suonare l’armonica” rispose il fanciullo malinconico ricordando i tempi felici e spensierati.
“Nelle sere d’estate in Cracovia, la città da dove provengo, mio nonno suonava il pianoforte nel salotto del suo appartamento e io restavo ad ascoltare quella musica, incantato da tanta dolcezza” continuò il piccolo Gioele, con la voce che cominciava a tremare per l’emozione dei ricordi, “finché il giorno del mio decimo compleanno, il nonno mi fece trovare un pacchetto regalo sopra allo scrittoio: lo aprii e vi trovai questo strumento. Imparai così a suonarlo”.
L’ espressione degli altri bambini si fece gioiosa .
Il racconto li aveva per un attimo distolti dalla realtà.
Il gelo della mattina seguente rese più duri i lavori forzati di tutte quelle persone ammalate e stremate dalla fame.
“Ares, Ares!” all’improvviso il bambino sentì una voce che pronunciava il suo nome, ma non riusciva a capire da dove provenisse, dato non c’era nessuno vicino a lui.
“ Usa la fantasia e aiuta i tuoi compagni a fuggire!”
Il bambino non comprese quello che gli era appena successo, ma si fece subito coraggio per capire il motivo di quella richiesta, così’ ne parlò la sera stessa con Gioele ed Lehi.
“ Come possiamo scappare?” chiese Gioele, dopo aver ascoltato le parole di Ares.
“ L’armonica! Suoneremo l’armonica ogni sera prima di addormentarci e presto saremo fuori da quest’inferno” rispose Ares con gli occhi lucenti dall’entusiasmo.
Passarono alcuni mesi e ogni sera i bambini si radunavano nella baracca, suonando un po’ per ciascuno quelle note a volte stonate. Componevano della musica senza farsi sentire dalle guardie.
Perfino Lehi, sempre più debole, stava sopravvivendo grazie alla forza della musica.
Quel momento della giornata, dava a tutti loro un attimo di pace e di immaginazione: chi sognava di volare verso casa, chi si addormentava accoccolato tra le braccia del nonno.
Piccoli sorrisi di speranza segnavano i loro volti affranti.
Furono mesi lunghi e interminabili.
“ Io non credo alla storia che ci hai raccontato” sbuffò Lehi rivolto ad Ares.
“ Smettila!” gli rispose Gioele cercando di zittirlo.
“ Non dobbiamo mai smettere di credere amici miei, mai! Continuiamo a suonare” disse Ares, al limite delle sue forze.
La mattina seguente accadde qualcosa di straordinario.
Furono abbattuti i cancelli del terribile campo di concentramento di Auschwitz: era il 27 gennaio 1945.
I pochi ebrei sopravvissuti nei campi di sterminio furono liberati, tra cui Ares e i suoi amici.
Si salutarono con abbracci pieni di gioia.
Dopo la liberazione Ares fu affidato ad un orfanotrofio a Varsavia e qui, nelle notti seguenti, faceva un sogno ricorrente: sognava di essere nei pressi di un campo di concentramento, era notte profonda e la luna illuminava il cielo.
Ad ogni suo respiro usciva vapore dal naso per il forte freddo. Si trovava al di là del filo spinato, era libero.
Dall’altra parte del recinto, vedeva un signore con gli occhiali, alto, bello, con la divisa a strisce ma non segnato dalla sofferenza.
“Ciao Ares, sono tuo padre, non smettere mai di crederci”.
“Papà !” urlava il piccolo piangendo, mentre cercava di riabbracciarlo. Il sogno però finiva sempre in quel preciso momento, perché ormai era consapevole che non avrebbe più rivisto la sua famiglia.
Un giorno Ares decise di ritornare ad Auschwitz per trovare qualche traccia che gli ricordasse i suoi genitori.
Rabbia e pianto erano le sensazioni che provava mentre rivedeva quei posti; camminava verso l’ignoto tra quelle baracche. Ormai si faceva sera e il piccolo si trovò in un luogo a lui conosciuto.
Era il punto preciso del sogno, vicino al filo spinato.
Ad un tratto sentì delle voci dietro di lui: “Ares siamo noi”.
Si voltò di scatto e vide i suoi genitori, quasi irriconoscibili , ma resi belli dall’immensa felicità.
“Mamma …Papá…. siete voi..!” gridò gioioso Ares correndo loro incontro per abbracciarli e assicurarsi che non stesse sognando .
“ Siamo sempre stati vicino a te con il pensiero, con la forza dell’amore anche quando eravamo in questo luogo orribile e adesso siamo realmente tutti insieme” disse il padre accarezzandogli il viso.
“Ti abbiamo cercato in questo anno per tutto il paese, ma invano, e oggi, anniversario della nostra liberazione, abbiamo sentito qualcosa che ci ha spinti fino qui” disse la madre piangendo e baciando il figlio sulle sue guance rosa.
La famiglia si riunì in un forte abbraccio intenso, pieno d’amore e di speranza che questi orrori non accadano nuovamente… E la neve scendeva ad Auschwitz.
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Di questa stessa raccolta:
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Lettrice curiosa in cerca di emozioni su cartaceo e su ebook, blogger per caso, e scrittrice sin da ragazzina per passione inesauribile.
Laureata in Scienze Politiche, a indirizzo sociologico. Master in Creazione di Progetti Sociali e Sviluppo Locale.
Sono appassionata di libri, di comunicazione, di musica, di arti grafiche e di tutto ciò che è creatività.





